Cattivi pensieri
di Marco Celati - giovedì 20 ottobre 2016 ore 07:00
Il dirigente della nostra Biblioteca Comunale mi ha chiesto il permesso di esplorare e ricostruire il mio albero genealogico. Forse dopo che si è scoperto che il celebre Franco Corsi, in arte Zeffirelli, è erede dell'ancor più celebre Leonardo da Vinci. Il nostro bibliotecario è una persona colta, di acuta intelligenza e, per di più, uno storico: pensa che sia giusto confrontarci con il nostro passato, con le nostre radici. Sapere da dove si viene. E che questo sia ancor più "terapeutico" ed educativo per i giovani che frequentano la biblioteca per studiare e si sentono "sradicati", tagliati fuori dalla cesura incorsa naturalmente o artificialmente tra le generazioni. Non penso che mi troveranno antenati illustri e, in ogni caso, non me ne importa una beata mazza: nemmeno io sono illustre e chissenefrega. Comunque gli ho detto: "certo, fai pure, anzi grazie". Lui, me lo ha chiesto apposta, perché mi conosce e lo sa che, nel mio "cupio dissolvi", spesso propendo per l'oblio, pur pensando che bisogna conoscere il passato perché altrimenti saremo costretti a ripeterlo. E siamo tutti d'accordo. Nel passato però non c'è futuro. E così, in attesa di avere ragguagli sulla mia discendenza, per ora continuo a discendere ogni giorno solo dalle scale di casa mia.
La nostra stirpe è nata con quello che mia madre chiamava, con vezzo autoironico, "un dono di natura": il setto nasale leggermente storto nella parte finale. Un difetto appena pronunciato, poco evidente che solo un po' compromette la respirazione. Ce l'avevano lei, i suoi fratelli, i nostri zii. Ce l'abbiamo noi, fratelli e sorella, i suoi figli. Un mio figliolo si è da poco sposato, l'altro ha una ragazza. Sono gemelli, gemelli diversi, ma entrambi condividono quel dono di natura, lasciato da mia madre che lei, a sua volta, avrà ereditato da qualcuno dei genitori e loro da altri prima ancora, nostri avi. I miei figli sono già grandi. In questi giorni pensavo che se, per scelta o per altri motivi o per il difficile rapporto della loro generazione con il futuro e questa vita e questa società, non avranno dei figli, il mio casato avrà termine e, con esso, un ramo della genia che ebbe il setto nasale storto finirà, sarà perduto per sempre. Io sono il maggiore dei miei fratelli e il prezioso dono che la natura ci elargì sarà eventualmente tramandato alla storia dagli altri rami dell'albero genealogico della nostra illustre discendenza. Anche così, in fondo, si seleziona e si affina il genoma umano.
O ciucco, o ciucco, o ciucco ripete tre volte il cuculo, appostato tra gli alberi, e poi torna a ripeterlo ancora: o ciucco, o ciucco, o ciucco. Evidentemente mi conosce bene. Quella specie di uccelli, di cui un amico scrittore saprebbe descrivere meglio le caratteristiche e il canto, non solo conosce me e la mia stirpe, ma ci insegue e ovunque si vada, anche al mare in vacanza, se e quando andiamo, ci irride ripetendo il suo verso ossessivo. Quasi un richiamo obbligato, intonato su due note: o ciucco. Del resto la nonna paterna Clelia, vulgo Crelia, ma anche la nonna materna Isabella, vulgo Lisa, dall'alto della loro popolare saggezza, ce lo dicevano sempre: "per i ciucchi 'un c'è medicina!" Ma se noi siamo ciucchi, il cuculo è un bello stronzo: un uccello usurpatore perché deposita le uova nei nidi degli altri, dando a balia forzata la sua discendenza. I piccoli del cuculo, appena escono dall’uovo nel nido che li ospita, si preoccupano di far ruzzolare di sotto le uova dei pulcini "legittimi". Una rottamazione naturale, peggio che nel PD. "Qualcuno volò sul nido del cuculo" è un bellissimo film del '75 di Miloš Forman, magistralmente interpretato da Jack Nicholson, ma nessuno può volare sul nido del cuculo perché, appunto, il cuculo non ha nido. Il "nido del cuculo" (the cuckoo's nest) al quale si fa riferimento nel titolo è un'espressione del gergo americano che indica il manicomio. Il film trattava infatti della malattia mentale e del disagio degli ospedali psichiatrici. E chissà che non siamo affetti anche noi da qualche strana sindrome, io e il mio cuculo.
Sempre più spesso torno a casa dal lavoro, stanco per l'età e per lo stress. Il peso delle responsabilità crescenti e la decrescente giovinezza si fanno sentire. Lavoro molto, almeno io penso di lavorare molto. Non è un lavoro manuale, è di testa, quella poca o tanta che ho o che rimane. Nella mia vita lavorativa non ho mai dovuto timbrare un cartellino e questo fa di me un privilegiato. Sono stato anche alle dipendenze, operaio, impiegato, ma poi per caso o per scelta, e non so dire per quanto dell'uno e dell'altra, in che percentuale, sono stato per la maggior parte della mia vita padrone di me. Dipendente da me nel lavoro culturale, sociale e istituzionale. In realtà si dipende sempre da chi ti dà lavoro o ti sceglie, da chi è sopra di te nella scala gerarchica sociale. Però, certo, è un'altra cosa che obbedire ad un comando, magari da te ritenuto non sempre il più giusto. E sono contento, alla fine, che mi sia andata così: non sono stato un travet. La cosa mi fa sentire anche un po' giovane, seppur diversamente tale: meglio, perché detesto il giovanilismo. Alla mia pur venerabile età, condivido con i giovani, in seguito alle mie scelte "professionali", volontarie o semi volontarie, l'assenza o la pochezza della pensione. E la sua lontananza, come per il filo dell'orizzonte. I miei figli, come me, dovranno lavorare tutta la vita, finché potranno, finché avranno forza e cervello. E questo lo sento più ingiusto: per me è stata una scelta o anche una scelta. Per loro sarà un obbligo dato dalle leggi e dall'organizzazione di una società imprevidente, che ha scelto di dilatare il presente e lasciare il futuro, in cui poco ha creduto e riposto risorse, in balia di se stesso. Oppure, a fare questo, è stata costretta dai tempi. Forse anch'io, da padre snaturato qual sono, ho mangiato un po' del futuro dei miei figli.
A volte devo tenere relazioni, partecipare ad incontri pubblici, salutare ed essere salutato, inventare qualcosa da dire: una frase di circostanza, magari non banale. Talora riesco ad essere ancora più scostante e antipatico del solito, altro dono di natura. "Come va? Resisto, grazie". Ho contratto con il tempo una forma di autismo sociale, di tipo relazionale, aggravato da manifesta agorafobia. E stasera che sono stanco e un po' triste, tornato a casa, mi viene da pensare che anche essere padrone di sé alla fine fa di te un dipendente dal peggiore dei padroni: te stesso. E solo per un attimo mi dico "vaffanculo te e tutto il tuo lavoro" che pure è ragione di affrancamento e di vita. L'età anziana fa rompere i freni inibitori del comportamento e del pensiero. Poi mi sorveglio e subito mi ripiglio, prima che sia troppo tardi: erano solo cattivi pensieri. Ma mi sento spossato e ho solo un gran sonno. Ho bisogno di un po' di riposo, devo dormire. Dormire, per fortuna, è una dimenticanza di sé. A domani.
Marco Celati
Treggiaia, 28 Maggio 2016
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Ringrazio l'amico scrittore, professor Dino Fiumalbi, vulgo Cignale, per lo scritto del cuculo, vulgo cu'ullo. Ettore Petrolini, sulla scena Gastone, a chi gli diceva che discendeva dalla commedia dell'arte, rispondeva che lui discendeva solo dalle scale di casa sua.
I miei figli non hanno ereditato il difetto al setto nasale che ho descritto, ma tornava bene agli effetti del racconto. L'imperfezione ispira di più, ma madre natura ha risolto e loro inspirano meglio.
Marco Celati