INCIPIT - La terza triade
di Pierantonio Pardi - giovedì 06 luglio 2023 ore 08:00
Bed & Breakfast
Introduzione
di Pierantonio Pardi
Il titolo nasce da un’allitterazione sulla regina delle labiali, la “b” appunto, ed è quindi figlio di un fonema, un figlio improvviso partorito da genitori anomali, scrittori per caso o per vocazione, antitetici ma non troppo, frutto di un incontro fortuito , favorito da una sorta di Dioniso – galeotto in cerca di contaminazioni grafiche, di sinestesie, di allucinazioni e improvvisazioni.
Ed è proprio da questo tipo di fascinazione che Incipit ha deciso di aprire per la prima volta ai racconti, interrompendo un percorso tematico che privilegiava i romanzi.
Bene, questa sorta di preambolo serviva solo ad introdurre i due autori ospiti di questa raccolta.
Da una parte, Dario Bizzarri, psichiatra ermetico e ctonio, dalla scrittura sulfurea e surrealista, autore di short stories fulminanti e fulminate, giocate su una scrittura che sposa diversi registri lessicali e scenari inquietanti e imprevisti. Sarebbe arduo e inutile ritrovare echi di O’Henry, Carver, Maupassant e Cechov in questi racconti, perché ci sono, ma non si vedono, non si avvertono se non ad un livello squisitamente subliminale. Bizzarri ritrae le nevrosi del quotidiano trasfigurandole in una galleria di personaggi e di situazioni minimali che assurgono a simboli di un immaginario conturbante, che prevedono, da parte del lettore, un notevole dispendio cognitivo ed una disponibilità totale allo spiazzamento e all’estraniazione. Non è una scrittura facile, né consolatoria. I finali tronchi e a sorpresa creano continui slittamenti, confusioni e perturbazioni, ma forniscono anche la chiave d’accesso ad improvvise folgorazioni.
Sull’altro versante, Francesca Barberi, freelance, intarsia sulla falsariga di un new gotic tutto suo, storie di sesso e di morte, di amori estremi e di scenari raccapriccianti e seducenti, ed anche qui sarebbe facile ritrovare archetipi che vanno da De Sade ad Anais Nin, passando attraverso Hoffmann e Kafka; sarebbe facile, ma inutile, perché Francesca gioca sulle contaminazioni narrative creando storie orribili e spettrali, a tratti claustrofobiche, intrise di mistero e squisitamente metafisiche, dove a volte il nonsense assurge a dimensione narratologica ibrida perché la fabula e l’intreccio si sposano in una danza anacronica e bislacca, partorendo spesso esilaranti effetti ironici.
Da questo matrimonio inusuale, da questo connubio pagano, è nata quindi questa raccolta che prende il titolo dai due racconti omonimi che sono presenti nel libro.
Ma, al di là di queste note, quello che evidenzia questo libro è una narrazione della psicopatologia quotidiana, raccontata senza veli e senza retorica in un percorso che va dal pulp all’ elegiaco, da Tarantino a Holderin insomma, da coltelli insanguinati ed omicidi efferati ad amplessi improbabili ed estenuanti ricerche di affinità elettive abortite sul nascere, effimere e conclusive al contempo, in un’apologia dell’ossimoro che tende a diventare stilema e spesso parodia di se stesso.
Quarta di copertina
Una narrazione della psicopatologia quotidiana. Da una parte Dario Bizzarri, psichiatra ermetico e sotterraneo, dalla scrittura sulfurea e surrealista, autore di short stories fulminanti e fulminate, cattivissime e sorprendenti, giocate su una scrittura che sposa diversi registri lessicali con scenari inquietanti e imprevisti.
Dall’altra, Francesca Barberi – freelance – intarsia, sulla falsariga di un new gothic tutto suo, storie di sesso e di morte, di amori estremi e di scenari raccapriccianti e seducenti.
E’ un viaggio nell’incubo, ma il lettore più attento potrà trovarvi spiragli di luce …
__________________________
ENZO GUIDI
DALMATICA
Prefazione di Daniele Luti
Dalmatica è un romanzo anfibologico per costruzione e per luminosità: a volte il paesaggio è dominato da un giallo che pare irraggiarsi da una luna chiusa dentro una bottiglia gelata, altre volte invece il sole crea degli effetti di un arancione implacabile fino a calcinare i muri e le pareti delle case. L'effetto è una dialettica paesaggistica che sembra procedere da Kafka a Camus, dall'argento irreale che sembra difendere la vita all’oro che pare alludere alla morte, alla decomposizione.
Del resto le prime cinquanta pagine raccontano paesaggi innevati, polari, placente di ghiaccio, casette tirolesi sublimate graficamente dal fiabesco ( fanno venire in mente le illustrazioni della casa editrice Fabbri inserite dentro le raccolte delle fiabe dei fratelli Grimm) dove si nascondono piccoli musei di oggettistica che difendono antologicamente il presente del passato e il presente del futuro e rifugi dove appaiono macchine empiriche del tempo costruite per essere raccontate da Jules Verne
Il tempo della storia è geometricamente circolare: si parte dal 2205 e si approda al sessantotto del Novecento per tornare al punto di partenza. Il protagonista, quindi, compie un suo nostos dell’anima dal momento che la sua Itaca, come quella dell’autore, è proprio quel leggendario anno in cui la fantasia per la prima volta parve imporsi sul grigiore dei tempi ed è interessante vedere come Guidi trasfiguri o, meglio, adatti la sua scrittura in rapporto allo spazio e al tempo. Le scivolate al tempo di valzer della prima parte si trasformano nel country e nel rock del cuore della storia.
Il secondo tempo di questo cinema grafico (siamo sulla strada che porta verso Istanbul) non è notevole solo per le descrizioni raffinate e cubiste che Guidi ci regala, passando velocemente dal paesaggio esterno a quello interiore del suo personaggio, riuscendo a promuovere il viaggio dal contornato allo sfumato della frammentazione dell’io, ma anche per il modo che ha di affidare all’universo dei suoni e degli odori il compito di spegnere e di dissolvere i fragori dell’attualità.
Le strade dorate della Jugoslavia titina, i camion reperti archeologici della meccanica, i paesi addormentati in sogni millenari e senza tempo, i luoghi e i non luoghi del comunismo balcanico strozzato dai muri delle diverse etnie sono scenografie che scorrono lungo l'orizzonte in fuga di una ricerca senza mete. I grandi della beat generation sono, naturalmente, soltanto idee guida che lo scrittore evita di far diventare ombra delle cose, della carne del suo romanzo. Bisogna sempre evitare, quando si analizza un'opera di narrativa, di farsi prendere dal vizio dell'individuazione delle Fonti, magari partendo da specchi banali.
L’autore, per esempio ha lavorato su un’idea d’Europa, nella sezione centrale, che contraddice il timbro più diffuso nelle classi e nelle categorie intellettuali degli anni Sessanta, per intenderci l’Europa carolingia, e ha delineato un percorso aperto alle atmosfere orientali, quelle di Bisanzio e della cultura levantina. Insomma ha percorso una strada che può portare verso una classicità che non ha i connotati pensati dal Winckelmann e dal Lessing, ma ancora ricca di apporti fenici, egiziani, orientali. E questo è il motore sotterraneo che ho trovato veramente originale in questa metafisica negativa che affiora di quando in quando dalle righe e dalle parole. E questo è anche ciò che giustifica in senso filosofico il gusto monologante dei personaggi del libro.
Dalmatica è, però, anche il romanzo della solitudine dell’uomo, della meditazione, della distanza dall’idea sempre negativa della collettività. Come dice Carmelo Bene, si può morire di massa, si può agonizzare per asfissia da moltitudini.
Il protagonista è, di fatto, un uomo in rivolta nella condizione iniziale, quando si trova in conflitto con la geometria del potere del suo tempo, continua ad essere ai limiti della società quando viene assorbito nella voragine del pozzo del profondo che lo colloca come una pedina – maratoneta nel vivo degli anni Sessanta del secolo scorso, è di nuovo in fuga nella conclusione. Insomma un grande racconto ricco di sorprese non programmate che zampillano dalla cultura spontanea, dalla tachiloquia ebefrenica di Enzo e dalla sua curiosità per se stesso. Il lettore, non a caso, è subito guadagnato da questo Pollicino di versi e costretto a perdersi nel doppio della realtà del romanzo.
Quarta di copertina
Dalmatica è, però, anche il romanzo della solitudine dell’uomo, della meditazione, della distanza dall’idea sempre negativa della collettività. Come dice Carmelo Bene, si può morire di massa, si può agonizzare per asfissia da moltitudini.
Il protagonista è, di fatto, un uomo in rivolta nella condizione iniziale, quando si trova in conflitto con la geometria del potere del suo tempo, continua ad essere ai limiti della società quando viene assorbito nella voragine del pozzo del profondo che lo colloca come una pedina – maratoneta nel vivo degli anni Sessanta del secolo scorso, è di nuovo in fuga nella conclusione. Insomma un grande racconto ricco di sorprese non programmate che zampillano dalla cultura spontanea, dalla tachiloquia ebefrenica di Enzo e dalla sua curiosità per se stesso. Il lettore, non a caso, è subito guadagnato da questo Pollicino di versi e costretto a perdersi nel doppio della realtà del romanzo.
_______________________________
La storia raccontata da Ico Gattai è la stessa narrata nel film di Roan Jhonson, “I primi della lista”, del 2011. Il soggetto scritto da Renzo Lulli narra una vicenda realmente accaduta negli anni ’70 a tre giovani del canzoniere pisano appartenenti alla sinistra extraparlamentare, Pino Masi, Fabio Gismondi e lo stesso Lulli che, credendo imminente un colpo di stato decidono di chiedere asilo politico in Austria.
Ico Gattai questa storia l’ha scritta nel 2006.
ICO GATTAI
Mamma dormo fuori
Prefazione di Pier Antonio Pardi
‘ Anni 70…..
Incredibili quegli anni…anni di svolta… gli anni del movimento, delle ideologie, delle contrapposizioni, anni antitetici e fortemente estetici nel senso di monocromie marcate: rosso e nero, ma Stendhal c’entra poco. Anni di pugni chiusi e di saluti romani, facce dure, scontri, fumogeni e…purtroppo morti, molti, troppi. Gli anni dei campionati del mondo in Messico dove i Carioca travolsero l’Italia, del Tuca Tuca, della Carrà, di Mike Buongiorno che invase l’Italia con il Rischiatutto, ma anche gli anni dell’isola di Wight e del Vietnam.
Insomma c’era stato il ’68 e gli echi si sentivano ancora, striscianti, manifesti, esplosivi. Non era stato facile metabolizzare quella microrivoluzione che aveva scardinato collaudati sistemi di certezze, archetipi fossilizzati in tranquillizzanti icone, ma la linea d’ombra era stata attraversata, il Rubicone guadato.
Emerge, dalle pagine di questo romanzo, una sorta di enciclopedia portatile dei miti che più hanno influenzato l’immaginario collettivo, un po’ come quelli descritti da Osvaldo Soriano nel suo “Ribelli,sognatori e fuggitivi” . Ed è così che sono i tre protagonisti di questa sgangherata avventura. Ribelli perché sono naturalmente “contro” il sistema, sognatori perché credono che la musica, la loro musica, quella del Canzoniere Pisano sia destinata a diventare la colonna sonora di una nuova rivoluzione e fuggitivi perché effettivamente fuggono dall’Italia, credendo che il golpe di Junio Valerio Borghese sia ormai alle porte e che il loro paese stia per precipitare di nuovo nell’abisso di una dittatura .
E fin qui, niente di strano, anche perché quel golpe non era solo nella loro mente, in una specie di delirio in overdose di preveggenza, una fantasia masturbatoria a metà tra Don Chisciotte e Amleto accomunati entrambi dall’ossessione dei fantasmi e che poi fossero mulini a vento o l’ectoplasma del padre poco importa, no quel progetto di golpe c’era davvero!
Per i nostri tre picari, quindi, c’è uno spettro nero che si aggira per l’Italia, lo spettro del Principe del male e quindi bisogna fuggire, correre verso la libertà, la stessa libertà che sognavano Milio, Eligio e Nini i tre ragazzi friulani raccontati da Pasolini ne “Il sogno di una cosa” che, alla soglia dei vent’anni vivono la loro breve giovinezza e , cercando di esorcizzare la misera delle origini e di un ‘Italia contadina appena uscita dalla guerra (era il 1948) fuggono (anche loro) in Iugoslavia alla ricerca di un mondo migliore dove trascorrere senza troppi traumi la “Meglio gioventù”. L’esperienza sarà deludente così come deludente e tragicomica sarà la fuga dei nostri eroi, il Lungo, il Maestro e il narratore (che resta sempre volutamente anonimo) che in Iugoslavia non ci arrivano neppure, bloccati alla frontiera austriaca da scettici e “divertiti” “polizei”.
Ma quel che piace in questa storia, oltre al ritmo veloce e sincopato che indulge ad un fraseggio minimalista, ricco di boutades e slogan rivisitati da un’ironia “fumettistica” , da una tecnica narrativa centrata sul “flusso di coscienza” e da una struttura paratattica fulminante e funambolica, è soprattutto la descrizione del viaggio, un “On the road” da commedia dell’arte in cui le grandi categorie ideologiche del marxismo – leninismo, shakerate in un maoismo e in un estremismo prèt a porter , rivelano nei dialoghi e nei monologhi dei nostri eroi i chiaroscuri, questi sì profondamente seri, di quel continuo dilemma tra ideale e reale che è il filo conduttore della nostra vita e delle nostre scelte.
Quarta di copertina
Un altro scoglio che affiora dall’abisso losco e buio, un’altra faccia dal regno del male. Ci siamo, siamo seduti, oltre il tavolo c’è il commissario che ci squadra. Scuote la testa in segno di dissenso totale, come a dire, ma guarda con che razza di disperati mi tocca parlare. Ha fretta il commissario, ha fretta di tornare a Roma. Sul tavolo dell’ufficio una copia del Corriere della Sera. “ Tre giovani maoisti chiedono asilo in Austria” E sopra il titolo, nell’occhiello, un’altra frase per noi pesante: “ Un episodio che ha il sapore di farsa.”
Giugno 1970, per sfuggire al colpo di stato, tre giovani militanti del Canzoniere Pisano scappano all’estero. Una storia veloce, un po’ storica e un po’ isterica.
Pierantonio Pardi