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Attualità giovedì 25 aprile 2024 ore 20:00

25 Aprile, Mattarella a Civitella nei luoghi dell'eccidio

Il presidente Mattarella e il ministro Crosetto a Civitella. Alle loro spalle il presidente della Regione Giani e il sindaco Tavarnesi
Il presidente Mattarella e il ministro Crosetto a Civitella. Alle loro spalle il presidente della Regione Giani e il sindaco Tavarnesi

Il presidente della Repubblica ha scelto la Toscana per celebrare la Festa di Liberazione. In Val di Chiana 244 cittadini trucidati: "Strage disumana"



CIVITELLA VAL DI CHIANA — 25 Aprile in Toscana per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha scelto di celebrare la Festa di Liberazione a Civitella in Val di Chiana, teatro di un eccidio nazista in cui persero la vita 244 persone fra il borgo, Cornia e San Pancrazio. "Una strage terribile e disumana", l'ha definita il presidente durante il suo intervento nella tensostruttura allestita per accogliere le cerimonie per il 79° anniversario della Liberazione.

Il Capo dello Stato ha raggiunto la Toscana in elicottero dopo le celebrazioni a Roma all'Altare della Patria, dove nel primo mattino ha deposto una corona di alloro al sacello del Milite ignoto. Atterrato a Badia al Pino, è arrivato alle 10,40 in punto a Civitella insieme al ministro della difesa Guido Crosetto.

Qui in piazza Becattini - ai piedi della scalinata che conduce alla spianata in sommità del borgo, teatro della strage - è stato accolto con picchetto d'onore dai vertici istituzionali regionali e locali con il sindaco Andrea Tavarnesi da cui era partito mesi fa l'invito nel borgo, il presidente della Provincia Alessandro Polcri, ed Eugenio Giani presidente della Toscana. Centinaia i cittadini che lo attendevano per assistere alla cerimonia e ascoltare le sue parole.

I bambini dell'istituto comprensivo locale lo hanno salutato intonando in coro l'Inno nazionale. Poi la visita alla Sala della Memoria, quindi alla chiesa di Santa Maria Assunta dove i tedeschi fecero irruzione sorprendendo i fedeli lì raccolti insieme al parroco. Nessuno venne risparmiato. Ecco dunque la tappa in tensostruttura con gli interventi di commemorazione, inframezzati dalle commosse letture di testimonianze da parte di Ottavia Piccolo.

Il presidente Mattarella ha visitato la chiesa di Santa Maria Assunta, dove iniziò la strage nazista. Uno dei superstiti gli ha consegnato una lettera per chiedere lo sblocco dei risarcimenti alle vittime delle stragi naziste, con le risorse stanziate in un fondo istituito dall'ex presidente del Consiglio Mario Draghi.

L’eccidio di Civitella

Quel mattino di fine Giugno la piazza era piena di gente. Era il 29, la festa dei Santi Pietro e Paolo, e in tanti a Civitella in Val di Chiana erano rimasti lontani dalle fatiche dei campi e dei boschi. Quel mattino di fine Giugno, nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, la chiesa di Santa Maria Assunta che domina la spianata più alta di Civitella, quella col pozzo, era gremita di fedeli.

La piazza antistante la chiesa di Santa Maria Assunta, oggi intitolata a don Alcide

La piazza antistante la chiesa di Santa Maria Assunta, oggi intitolata a don Alcide Lazzeri

Fu lì, in quell’edificio religioso, che lo squadrone dei tedeschi fece irruzione durante la messa. La rappresaglia rispetto alla sparatoria in cui 11 giorni prima un manipolo di partigiani aveva ucciso soldati tedeschi nel circolino del paese era stata pianificata con cura. E fu tremenda.

La chiesa di Santa Maria Assunta

La chiesa di Santa Maria Assunta a Civitella in Val di Chiana

Il parroco, don Alcide Lazzeri, sarebbe stato risparmiato perché uomo di chiesa, ma scelse invece la morte in un atto di estremo sacrificio con cui tentò di salvare il suo popolo. Ma invano. 

I soldati tedeschi trucidarono i fedeli uno a uno sparando loro alla nuca. I colpi d’arma da fuoco ferirono il silenzio dell’intera vallata raggelando quanti erano nascosti nei boschi, grandi e piccini. Poi appiccarono il fuoco alle case, ammazzando così quanti avevano tentato di rifugiarsi in cantine o soffitte.

Quel giorno altri squadroni fecero incursioni a Cornia e a San Pancrazio crivellando di colpi chiunque incontrassero, chiunque trovassero violando le case. Non c’era genere né età: uccisero chiunque.

I morti a Civitella furono 115. Cornia pianse 58 vittime, San Pancrazio 71. In quell’eccidio, quasi 80 anni fa, persero la vita 244 innocenti.

Ecco il testo integrale del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella:

“Presidente della Regione, Sindaco, autorità, cittadini,

Siamo qui riuniti per celebrare il 25 aprile - l’anniversario della Liberazione - a Civitella in Val di Chiana, a ottant’anni dalla terribile, disumana, strage nazifascista perpetrata, in questo territorio, sulla popolazione inerme.

Come abbiamo, poc’anzi, ascoltato dalle parole del Sindaco, della professoressa Ponzani, dalle letture – ringrazio Ottavia Piccolo per la sua appassionata interpretazione – e, con emozione, dalla straordinaria testimonianza di Ida Balò, gli eccidi avvennero, oltre che a Civitella, a Cornia, dove la crudeltà dei soldati della famigerata divisione Goring si sfogò in maniera particolarmente brutale, con stupri e uccisioni di bambini.

Nella stessa giornata si compiva, non lontano da qui, un altro eccidio, a San Pancrazio, dove furono sterminate oltre settanta persone.

Come è testimoniato dai documenti processuali, gli eccidi furono pianificati a freddo, molti giorni prima, e furono portati a termine con l’inganno e con il tradimento della parola. Si attese, cinicamente, la festa dei Santi Pietro e Paolo per essere sicuri di poter effettuare un più numeroso rastrellamento di popolazione civile.

La tragica contabilità del 29 giugno del ’44, in queste terre racconta di circa 250 persone assassinate. Tra queste, donne, anziani, sacerdoti e oltre dieci minorenni. Il più piccolo, Gloriano Polletti, aveva solo un anno. Maria Luisa Lammioni due.

Il parroco di Civitella, don Alcide Lazzeri, e quello di San Pancrazio, Don Giuseppe Torelli, provarono a offrire la loro vita, per salvare quella del loro popolo, ma inutilmente. Furono uccisi anch’essi, insieme agli altri. Alcuni ostaggi, destinati alla morte, rimasero feriti o riuscirono a fuggire. Nei loro occhi, stupefatti e impauriti, rimarrà per sempre impresso il ricordo di quel giorno di morte e di orrore.

Sono venuto, oggi,qui a Civitella - uno dei luoghi simbolo della barbarie nazifascista - per fare memoria di tutte le vittime dei crimini di guerra, trucidate, in quel 1944, sul territorio nazionale e all’estero.

Non c’è parte del suolo italiano - con la sola eccezione della Sardegna – che non abbia patito la violenza nazifascista contro i civili e non abbia pianto sulle spoglie dei propri concittadini brutalmente uccisi.

La Regione che ci ospita - la Toscana - è tra quelle che hanno pagato il più alto tributo di sangue innocente, insieme all’Emilia Romagna e al Piemonte,

La magistratura militare e gli storici, dopo un difficile lavoro di ricerca, durato decenni, hanno, finora, documentato sul territorio italiano cinquemila crudeli e infami episodi di eccidi, rappresaglie, esecuzioni sommarie.

Con queste barbare uccisioni, nella loro strategia di morte, i nazifascisti cercavano di fare terra bruciata attorno ai partigiani per proteggere la ritirata tedesca, di instaurare un regime di terrore nei confronti dei civili perché non si unissero ai partigiani, di operare vendette nei confronti di un

popolo, considerato inferiore da alleato e, dopo l’armistizio, traditore.

Si trattò di gravissimi crimini di guerra, contrari a qualunque regola internazionale e all’onore militare e, ancor di più, ai principi di umanità.

Nessuna ragione, militare o di qualunque altro genere, può infatti essere invocata per giustificare l’uccisione di ostaggi e di prigionieri inermi.

I nazifascisti ne erano ben consapevoli: i corpi dei partigiani combattenti, catturati, torturati e giustiziati, dovevano rimanere esposti per giorni, come sinistro monito per la popolazione. Ma le stragi di civili cercavano di tenerle nascoste e occultate, le vittime sepolte o bruciate. Non si sa se per un senso intimo di disonore o per evitare d’incorrere nei rigori di una futura giustizia, o, ancora, per non destare ulteriori sentimenti di rivolta tra gli italiani.

All’infamia della strage di Marzabotto, la più grande computa in Italia, seguì un corollario altrettanto indegno: la propaganda fascista, sui giornali sottoposti a controlli e censure, negava l’innegabile, provando a smentire l’accaduto, cercando di definire false le notizie dell’eccidio e irridendo i testimoni.

Occorre – oggi e in futuro - far memoria di quelle stragi e di quelle vittime e sono preziose le iniziative nazionali e regionali che la sorreggono. Senza memoria, non c’è futuro.

Una lunga di scia di sangue ha accompagnato il cammino dell’Italia verso la Liberazione. Il sangue dei martiri che hanno pagato con la loro vita le conseguenze terribili di una guerra ingiusta e sciagurata, combattuta a fianco di Hitler nella convinzione che la grandezza e l’influenza dell’Italia si sarebbero dispiegate in un nuovo ordine mondiale. Un ordine fondato sul dominio della razza, sulla sopraffazione o, addirittura, sullo sterminio di altri popoli. Una aspirazione bruta, ignobile, ma anche vana.

Totalmente sottomessa alla Germania imperialista di Hitler, l’Italia fascista, entrata nel conflitto senza alcun rispetto per i soldati mandati a morire cinicamente, non avrebbe comunque avuto scampo. Ebbe a notare, con precisione, Luigi Salvatorelli: «Con la sconfitta essa avrebbe perduto molto, con la vittoria tutto…»

Generazioni di giovani italiani, educati, fin da bambini, al culto infausto della guerra e dell’obbedienza cieca e assoluta, erano stati mandati, in nome di una pretesa superiorità nazionale, ad aggredire con le armi nazioni vicine: le «patrie degli altri» come le chiamava don Lorenzo Milani.

Nella disastrosa ritirata di Russia, sui campi di El Alamein, nelle brutali repressioni compiute in Grecia, nei Balcani, in Etiopia, nelle deportazioni degli ebrei verso i campi di sterminio, nel sostegno ai nazisti nella repressione della popolazione civile, si consumò la rottura tra il popolo italiano e il fascismo.

Si verificò - scrisse ancora Salvatorelli - «una crisi morale profonda, una disaffezione completa rispetto al regime, un crollo disastroso dell’idolo Mussolini.»

Il fascismo aveva in realtà, da tempo, scoperto il suo volto, svelando i suoi veri tratti brutali e disumani.

L’8 settembre, con i vertici del Regno in fuga, fece precipitare il Paese nello sconforto e nel caos assoluto. Ma molti italiani non si piegarono al disonore. Scelsero la via del riscatto. Un riscatto

morale, prima ancora che politico, che recuperava i valori occultati e calpestati dalla dittatura. La libertà, al posto dell’imposizione. La fraternità, al posto dell’odio razzista. La democrazia, al posto della sopraffazione. L’umanità, al posto della brutalità. La giustizia, al posto dell’arbitrio. La speranza, al posto della paura.

Nasceva la Resistenza, un movimento che, nella sua pluralità di persone, motivazioni, provenienze e spinte ideali, trovò la sua unità nella necessità di porre fine al dominio nazifascista sul territorio italiano, per instaurare una nuova convivenza, fondata sul diritto e sulla pace.

Scrisse padre Davide Maria Turoldo: «Tra i morti della Resistenza vi erano seguaci di tutte le fedi. Ognuno aveva il suo Dio, ognuno aveva il suo credo, e parlavano lingue diverse, e avevano pelle di diverso colore, eppure nella libertà e nella dignità umana si sentivano fratelli».

Fu così che reduci dalla guerra e giovani appassionati, contadini e intellettuali, monarchici e repubblicani, si unirono per lottare, con le armi, contro l’oppressore e l’invasore. Tra di loro uomini, donne, ragazzi, di ogni provenienza, di ogni età. Combatterono a viso aperto, con coraggio, contro un nemico feroce e soverchiante per numero, armi e addestramento.

Vi fu l’eroica Resistenza dei circa 600 mila militari che, dopo l’8 settembre, rifiutarono di servire la Repubblica di Salò, il regime fantoccio instaurato da Mussolini sotto il controllo totale di Hitler. Furono passati per le armi, come a Cefalonia e a Corfù, o deportati nei lager tedeschi. Furono definiti “internati militari”, per negare loro in questo modo persino lo status di prigionieri di guerra. Ben cinquantamila di loro morirono nei campi di detenzione in Germania, a causa degli stenti e delle violenze.

Vi fu la Resistenza delle popolazioni, ribellatesi spontaneamente di fronte a episodi di brutalità e alle violenze, scrivendo pagine di splendido eroismo civile. Vi furono le coraggiose lotte operaie, culminate nei grandi scioperi nelle industrie delle città settentrionali.

In tutta la Penisola, nelle montagne e nelle zone di mare, si attivò spontaneamente, in quegli anni drammatici, la rete clandestina della solidarietà, del risveglio delle coscienze e dell’umanità ritrovata.

Migliaia di uomini, di donne, di religiosi, di funzionari dello Stato, operai, borghesi, rischiando la propria vita e quella dei loro familiari, si opposero alla dittatura e alle violenze sistematiche, nascondendo soldati alleati, sostenendo la lotta partigiana, falsificando documenti per salvare gli ebrei dalla deportazione, stampando e diffondendo volantini di propaganda.

Fu la Resistenza civile, la Resistenza senza armi, un movimento largo e diffuso, che vide anche la rinascita del protagonismo delle donne, sottratte finalmente al ruolo subalterno cui le destinava l’ideologia fascista.

Scrive a questo proposito Claudio Pavone: «Essere pietosi verso altri esseri umani era di per sé una manifestazione di antifascismo e di resistenza, quale che ne fosse l’ispirazione, laica o religiosa. Il fascismo aveva insita la ideologia della violenza, la pietà non era prevista…»

La Resistenza, nelle sue forme così diverse, contribuì in misura notevole all’avanzata degli Alleati e alla sconfitta del nazifascismo.

Ai circa trecentocinquantamila soldati, venuti da Paesi lontani, morti per liberare l’Italia e il mondo dall’incubo del nazifascismo, l’Italia si inchina doverosamente, con commozione e con riconoscenza.

Quei ragazzi, che riposano sotto le lapidi bianche dei cimiteri alleati che costellano la nostra Penisola, li sentiamo come nostri caduti, come nostri figli.

Liberazione, dunque, dall’occupante nazista, liberazione da una terribile guerra, ma anche da una dittatura spietata che, lungo l’arco di un ventennio, aveva soffocato i diritti politici e civili, calpestato le libertà fondamentali, perseguitato gli ebrei e le minoranze, educato i giovani alla sacrilega religione della violenza e del sopruso. L’entrata in guerra, accanto a Hitler, fu la diretta e inevitabile conseguenza di questo clima di fanatica esaltazione.

Il 25 aprile è per l’Italia una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata, e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche. Quella pace e quella libertà, che - trovando radici nella resistenza di un popolo contro la barbarie nazifascista - hanno prodotto la Costituzione repubblicana, in cui tutti possono riconoscersi, e che rappresenta garanzia di democrazia e di giustizia, di saldo diniego di ogni forma o principio di autoritarismo o totalitarismo.

Aggiungo - utilizzando parole pronunciate da Aldo Moro nel 1975 - che “intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico”.

A differenza dei loro nemici, imbevuti del culto macabro della morte e della guerra, i patrioti della Resistenza fecero uso delle armi perché un giorno queste tacessero e il mondo fosse finalmente contrassegnato dalla pace, dalla libertà, dalla giustizia.

Oggi, in un tempo di grande preoccupazione, segnato, in Europa e ai suoi confini, da aggressioni, guerre e violenze, confidiamo in quella speranza.

E per questo va ribadito: Viva la Liberazione, Viva la libertà, viva la Repubblica.”


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